10 febbraio 2014

Giorno del ricordo

La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Insieme al presidente del Comitato di Bologna Marino Segnan dell’A.N.V.G.D., l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia sorta nel 1947, con lo scopo di raccordare e organizzare le decine di migliaia di profughi – italiani autoctoni – provenienti dai territori della Venezia Giulia e della Dalmazia che il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 aveva ceduto alla ex Jugoslavia o assegnato alla Zona B del mai costituito Territorio Libero di Trieste, e al docente di Storia contemporanea dell'Università di Trieste Raoul Pupo,abbiamo celebrato questa giornata in Consiglio Comunale.

Questo l'intervento del professore Raoul Pupo, un interessante spaccato di storia:



"Sono passati quasi dieci anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, ma in realtà la sensibilità su queste tematiche era cominciata già da qualche anno, soprattutto da parte del mondo della scuola: la legge l’ha istituzionalizzata e – evidentemente – le ha conferito maggior impulso, in particolar modo attraverso l’ impegno sistematico delle istituzioni.
A questo punto quindi, è possibile qualche riflessione generale: non un bilancio sistematico, perché ci vorrebbero degli studi che non sono stati ancora eseguiti, ma qualche considerazione sulla base dell’ esperienza sì, questa è possibile farla.
Dunque, l’ istituzione della Giornata del Ricordo ha acceso l’ interesse della politica sulla storia del confine orientale. Quando la politica si occupa di storia, si danno sempre effetti contrastanti.
Quelli negativi sono molto facili da scoprire: semplificazione e strumentalizzazione, che ci sono stati anche in questo caso: perché c’ erano alcuni partiti che pensavano di trovarsi in una posizione migliore degli altri per cavalcare l’ onda, ma anche perché la riscoperta degli aspetti più tragici per gli italiani della storia del confine orientale è stata uno dei terreni su cui si è esercitato il processo di legittimazione reciproca delle forze politiche post-comuniste e post-fasciste dopo la fine della Prima Repubblica (incontro Violante – Fini).
Però la luna non ha soltanto una faccia oscura. Nel nostro caso, direi che gli aspetti positivi sono stati notevoli.
In primo luogo, sul piano della coscienza civile. Esisteva una memoria dolente, di un numero cospicuo di nostri concittadini, che avevano sofferto principalmente per la loro volontà di mantenere la propria identità nazionale. Questa memoria era pressoché sconosciuta, il loro dramma era ignorato e questa trascuratezza era fonte di ulteriori sofferenze. Nell’ ultimo decennio, finalmente, quest’ ombra è stata rimossa, quel trauma sepolto è stata metabolizzato e gli esuli e i familiari degli uccisi hanno visto riconosciuto il loro sacrificio.
Sul piano invece della consapevolezza storica, esisteva una parte di storia italiana tutt’altro che secondaria, che per una serie di rimozioni incrociate era rimasta per decenni in un cono d’ombra. grazie all’ attenzione dedicata al confine orientale, questo segmento di storia è stato largamente reintegrato. Ma si è andati anche oltre. In alcuni casi si è riusciti a ribaltare completamente la situazione, utilizzando la storia del confine orientale, con il suo intreccio di questioni nazionali, politiche e sociali, come una sorta di laboratorio per capire meglio le dinamiche della contemporaneità nell’Europa centrale, cioè in quella che sta appena oltre i nostri confini.
Questa nuova acquisizione, è stata giocata su due piani. Il primo è quello della ricerca, che qui interessa meno, ma che comunque è stato favorito dalla ripresa di attenzione generale su questi temi. Il secondo, e che a noi in questa sede interessa di più, è quello della diffusione della conoscenza storica ed in particolare della didattica della storia.
A questo livello, credo che i risultati siano stati notevoli. Lo sono stati in termini quantitativi, perché gli interventi compiuti sono stati infiniti e soprattutto perché nel corso degli anni si sono creati alcuni centri autonomi di elaborazione didattica, mentre inizialmente tutti dipendevano da alcuni soggetti operanti nell’ area giuliana.
Lo sono stati in termini qualitativi, in primo luogo perché in molti casi è stato possibile andare oltre la tradizionale lezione frontale per dar vita a vere e proprie esperienze di laboratorio didattico. Nel far questo, nel corso degli anni abbiamo assistito ad un processo a mio modo di vedere abbastanza interessante. In una fase iniziale, a cavaliere del secolo, ad occuparsi di didattica del confine orientale erano fondamentalmente due agenzie, entrambe diffuse ampiamente sul territorio nazionale: le organizzazioni dei profughi e la rete degli istituti per la storia del movimento di liberazione. Ovviamente gli approcci erano molto diversi e qualche volta le iniziative apertamente concorrenziali.
Con l’ andare del tempo si è visto che in realtà esisteva lo spazio per costruire percorsi comuni che aiutassero gli studenti a capire come la ricostruzione del passato è un’ operazione complessa, che deve tener conto di due aspetti complementari: il primo è il momento della soggettività, attraverso il recupero della memoria; il secondo è il momento del distacco critico, attraverso l’ analisi storica.
Memoria vuol dire percezione, sofferenza, passione. Storia vuol dire ricostruzione critica degli avvenimenti e loro collocazione nei contesti di riferimento. Combinare la forza, anche emotiva, delle testimonianze, con l’ attendibilità delle ricostruzioni storiche, si è rivelata la soluzione migliore per far rivivere il passato in tutta la sua dimensione umana, e, contemporaneamente, per mostrare come soltanto l’ analisi critica può evitare che quel passato diventi oggetto di manipolazioni.
Seguendo questo percorso, le esperienze migliori nel campo della didattica della storia di confine si sono inserite in un dibattito molto più generale, con il quale studiosi e insegnanti devono fare i conti tutte le volte in cui si misurano con un’ altra delle giornate memoriali, quella dedicata al ricordo della Shoah.
I temi naturalmente sono molto diversi, ma dal punto di vista del metodo i problemi sono gli stessi: il rischio del ritualismo, che genera abitudine e disaffezione; e le conseguenze di quella che è stata chiamata “L’ era del testimone”, che possono generare uno squilibrio fra memoria e storia, privilegiando la partecipazione a danno della comprensione.

Ecco quindi che la vicinanza di queste due giornate (memoria e ricordo), una vicinanza che qualche volta ha suscitato perplessità sia in sede politica che fra gli operatori della scuola, in realtà si presta molto bene a far emergere un filo di ragionamento comune, non sul piano degli avvenimenti (che rappresenta solo il livello minimo della conoscenza storica), ma sul piano dei criteri di lettura del passato, che è molto più interessante.

Un’altra indicazione forte che è emersa direi parallelamente da parte di queste due agenzie (istituti e associazioni, in particolare Anvgd), soprattutto negli ultimi anni, è quella di non limitare l’attenzione alle due vicende estreme di cui si fa esplicita menzione nella legge, e cioè le Foibe e l’Esodo, ma di estenderla alla storia di medio periodo, cioè i cent’anni che vanno dalla metà dell’800 a quella del ‘900, che rappresentano il contesto specifico di quei due drammi; e poi di allargarla anche alla storia di lungo periodo, vale a dire a quella della presenza e della cultura prima latina, poi romanza, poi veneta e poi italiana sulle sponde orientali dell’ Adriatico. E quest’ ultima è una lunga e grande storia, della quale in genere sono inconsapevoli i moltissimi italiani che ogni anno si recano in Istria e in Dalmazia senza sapere in realtà dove vanno.
Infine, un ultimo stimolo, fra i molti che sono emersi dalla esperienze di ricerca e discussione di questi anni, è quello che mi permette di avviarmi alla seconda parte del mio intervento di questa mattina. si tratta del rapporto fra avvenimenti e contesto.
E' un rapporto che è stato spesso molto maltrattato, in due direzioni opposte.
Lo si maltratta ad esempio, quando si cerca di spiegare le due grandi tragedie, quella delle Foibe e quella dell’ Esodo, senza guardare a quello che è successo prima ed a quello che succedeva intorno. In questi casi è inevitabile, che – al di là della commozione per le sofferenze patite – i giudizi storici risultino imprecisi.
Ma lo si maltratta anche se si guarda solo al contorno e si presentano quelle due crisi (Foibe ed Esodo) soltanto come conseguenze meccaniche e tutto sommato inevitabili della storia precedente.
La vera sfida della ricostruzione storica consiste invece nel dar conto della continuità e, al tempo stesso, nell’ individuare le specificità dei fenomeni e dei soggetti individuali e collettivi che li hanno generati.
E allora, a questo punto, nel tempo che ci resta tentiamo in maniera molto sintetica questa operazione di collegamento.


Partiamo quindi dal contesto, che è quello di uno dei molti territori plurali dell’Europa prima della Grande guerra. un territorio cioè, quello che va dal fiume Isonzo fino al Golfo del Quarnaro, e poi scende lungo la costa orientale adriatica fino alle Bocche di Cattaro, nel quale da circa un millennio vivono genti con diverse parlate, alcune di ceppo romanzo (principalmente veneto), altre di ceppo slavo. Questo fino all’800 non costituisce un problema, perché le identità – e quindi i conflitti – si giocano attorno ad altri criteri, come la religione (cristiani o musulmani) e la fedeltà ad uno stato (Venezia, l’Impero Asburgico e quello Ottomano). Quindi, anche il pluringuismo è molto diffuso.

Nel corso dell’ 800 invece si avvia il processo di nazionalizzazione fondato proprio sull’ identità linguistica. Ma siccome le lingue parlate sono diverse, sul medesimo territorio si formano diversi nuclei nazionali.
E dal momento che il processo parte dall’ alto, dalle élites, queste classi dirigenti nazionali cercano di trascinare ognuna dalla propria parte il maggior numero possibile di persone, sollecitandole a scegliere una lingua piuttosto che un’ altra, e quindi una nazione piuttosto che un’ altra.
Questo noi lo chiamiamo un processo di nazionalizzazione di massa parallelo e competitivo, che genera conflitti. Guardate che va avanti per un secolo e si conclude appena nella seconda metà del ‘900, quando non esiste più nessuna “zona grigia” dal punto di vista nazionale.
Questo processo di nazionalizzazione ha anche un altro effetto. Di solito nella storia politica vige una regola, che non è una legge scientifica, ma funziona: ogni volta che si forma una nuova identità collettiva, questa chiede un riconoscimento politico. Può essere una classe che prima non esisteva (borghesia, proletariato); può essere una generazione (giovani ’68); può essere un genere (femminismo); può essere, appunto, una nazione.
Riconoscimento politico vuol dire partecipazione al potere e di solito si evolve rapidamente nella richiesta del monopolio del potere. Per la nazione, questa richiesta estrema, cui arrivano tutti i movimenti nazionali, è la richiesta dello Stato nazionale = uno stato per una nazione.
Ma nelle terre plurali come si fa? ogni gruppo nazionale desidera entrare a far parte di quella che considera la propria madrepatria esterna. Quando non ci riesce, dà vita a quel fenomeno che viene chiamato “irredentismo”, cioè bisogno di “redenzione” nazionale, dove il termine esprime con molta evidenza il trasferimento del linguaggio religioso sul piano politico, com’è tipico delle nuove “religioni civili” otto e novecentesche, prima fra tutte la “religione della patria”. Così voi avrete un irredentismo italiano quando le terre adriatiche fanno parte dell’Impero asburgico; avrete un irredentismo sloveno e croato quando queste verranno annesse all’Italia; ed avrete un nuovo irredentismo italiano quando le medesime terre passeranno alla Jugoslavia o verranno temporaneamente occupate dagli Anglo-Americani. Ogni irredentismo naturalmente ha i suoi eroi e i suoi martiri, che dall’altra parte vengono considerati dei delinquenti.
E quindi, grazie all’ irredentismo, al conflitto sul territorio si aggiunge il conflitto fra gli stati nazionali, che cercano ognuno di inglobare i territori misti alla frontiera, un po’per proteggere i propri connazionali e un po’ per ragioni di potenza.
Questo è quello che accade alle terre adriatiche: un conflitto nazionale sempre più aspro negli ultimi decenni della dominazione asburgica; poi, dopo la Grande guerra e la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico, un conflitto diplomatico fra Italia e Jugoslavia risolto a favore dell’Italia in quanto grande potenza e quindi annessione di tutta la Venezia Giulia, ma non della Dalmazia; poi ancora, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’ aggressione italiana alla jugoslavia e l’ annessione anche della Dalmazia, più altri pezzi che con la nazione non c’entravano nulla; poi ancora, dopo la Seconda Guerra Mondiale, un altro conflitto diplomatico, questa volta risolto a favore della Jugoslavia in quanto stato vincitore, che annette tutta la Venezia Giulia meno Trieste, cioè, fondamentalmente, Zara, fiume e l’Istria. infine, Trieste, che ancora per qualche anno, fino al 1954, rimane sottoposta ad un’ amministrazione militare anglo-americana. Il tutto, nel giro di pochi decenni.

Il nostro contesto però è fatto anche di altri elementi. Uno di questi, è il trattamento delle minoranze da parte degli Stati nazionali europei.


Fino agli anni ’50 questo è stato generalmente cattivo, perché le minoranze venivano considerate in genere come un limite alla piena realizzazione della nazione che si era costruita uno stato per sé stessa, e non per gli altri. Naturalmente, questo fastidio nei confronti di popolazioni che stavano “dalla parte sbagliata della frontiera”, come si diceva allora, poteva manifestarsi in vari modi. in parte dipendeva dai regimi politici.

Anche gli stati democratici discriminavano in qualche misura le minoranze, come i cechi nei confronti dei tedeschi, ma in genere gli stati autoritari le trattavano peggio.
Ecco allora che un altro elemento portante del nostro contesto è dato dai regimi totalitari che si sono succeduti nelle terre adriatiche, prima il Fascismo italiano e poi il Comunismo jugoslavo.
naturalmente, dal punto di vista ideologico sono molto diversi, anzi, opposti.
Il fascismo è ultranazionalista, e addirittura l’antislavismo è uno dei fondamenti della sua ideologia. E quindi, la sua politica ufficiale nei confronti delle minoranze slovena e croata è la “bonifica etnica” = assimilazione forzata.
Le conseguenze sulle popolazioni locali sono molto pesanti e, per questa e per altre ragioni, fra le due guerre si registra un flusso migratorio in uscita dalla Venezia Giulia di un centinaio di migliaia di persone, principalmente sloveni e croati. La maggior parte però resiste, perché si tratta di comunità contadine molto radicate alla terra e capaci di proteggere l’identità dei loro membri negli spazi privati.

Il Comunismo jugoslavo invece è internazionalista, però un altro dei piccoli trucchi che si imparano studiando la storia, è quello di non accontentarsi delle definizioni, ma di cercare di capire che cosa vogliono dire nella concretezza delle situazioni.

E dunque, per il Movimento di Liberazione jugoslavo a guida comunista, internazionalismo voleva dire prima di tutto superamento dei conflitti nazionali che stavano lacerando il paese con la spaventosa guerra civile seguita alla dissoluzione del regno dei Karageorgevic dopo l’attacco tedesco e italiano nel 1941.
Il superamento poteva avvenire in primo luogo proiettando le spinte nazionali verso l’esterno e quindi il movimento di liberazione fa proprie le tradizionali rivendicazioni territoriali dei singoli popoli verso tutti i paesi confinanti, fra cui l’Italia. Inoltre, il Partito Comunista adotta la concezione etnicista della nazione (cioè quella del tipo “sangue e terra), secondo la quale una buona parte di quanti nella Venezia Giulia si considerano italiani sono invece slavi italianizzati: a questi quindi non vanno riconosciuti i diritti nazionali, ma anzi, vanno “aiutati” a recuperare la loro identità slovena o croata, anche se non lo desiderano.
Poi, fra i rimanenti, ci sono altre distinzioni da fare. ad esempio, i diritti nazionali non possono venir riconosciuti ai “fascisti” contro i quali si è combattuto. In effetti, il “Fascismo di confine” a Trieste e in Istria è stata una realtà molto dura, ma “fascisti” nel linguaggio del fronte di liberazione è un termine molto largo, che copre ad esempio tutti gli uomini delle istituzioni italiane e i quadri delle organizzazioni di massa del regime.

Poi ci sono i “residui del fascismo”, vale a dire tutti quelli che magari non si considerano fascisti, o addirittura sostengono di essere antifascisti, ma vogliono la conservazione della sovranità italiana sulla regione e quindi secondo i comunisti jugoslavi seguono una politica fascista e dunque sono fascisti anche loro.

E poi c’è la questione di classe. Naturalmente, i comunisti jugoslavi non hanno alcuna intenzione di riconoscere alcun tipo di diritto ai borghesi, che vanno dal proprietario terriero al bottegaio. Ma, sfortunatamente, i ceti non proletari nella Venezia Giulia sono quasi integralmente italiani, e dunque sono anche loro “nemici del popolo”.
Infine, restano gli operai, che non sono proprio tanti, ma almeno loro hanno il diritto di venir chiamati “italiani onesti e buoni”. anche qui però, c’è una condizione: non basta essere proletari e nemmeno essere comunisti: bisogna anche essere comunisti nel modo giusto. Nel 1948, quando scoppia la crisi del Cominform, a tutti i comunisti viene chiesto: stai con Stalin o stai con Tito? la maggior parte dei comunisti italiani sta con Stalin e quindi diventano anche loro “nemici del popolo”.
E allora, chi rimane? molto pochi, veramente un pugno di persone. Tutti gli altri, che sono tutti per diverse ragioni “nemici del popolo”, devono star contenti se restano vivi.
Non ci sono provvedimenti generalizzati di espulsione, ma la loro vita diventa progressivamente impossibile, stretti fra repressione poliziesca, ogni tanto qualche bastonatura e qualche scomparsa senza ritorno, la persecuzione di singole categorie, come i comunisti cominformisti o gli insegnanti, l’esproprio dei beni, l’ammasso dei prodotti della terra e del mare, la politica antireligiosa, l’erosione dell’identità nazionale.
E così, quando si apre uno spiraglio per potersi trasferire in Italia senza rischiare la vita nelle fughe clandestine, la quasi totalità degli italiani sceglie la via dell’esodo. questo accade quando due atti internazionali (tdp - mem) consentono il diritto di opzione.
Ho usato la parola “sceglie”, ma è una scelta tutt’altro che incondizionata. La storiografia ha lavorato molto su questo nodo volontarietà/costrizione nei trasferimenti forzati di popolazione, e in anni recenti è approdata a costruire un modello di riferimento, che prende il nome proprio dall’esperienza italiana, e che il modello dell’esodo, distinto da quello dell’espulsione e da quello della deportazione, anche se il risultato finale è lo stesso . Per esodo quindi..
Gli esempi nella contemporaneità europea sono parecchi e il primo a rientrare nella categoria è quello dei tartari che sono stati spinti ad abbandonare la Crimea dopo l’occupazione russa alla metà dell’800.
Ma torniamo ai due regimi totalitari: diversissimi, antagonisti, ma con qualche punto in comune, ad esempio l’antipatia per il dissenso, un’antipatia che conduce alla repressione ed alla violenza.
Per la verità, questa propensione alla violenza si manifesta ancora prima della presa del potere, anzi, costituisce uno degli strumenti per la presa del potere.
Nel fascismo delle origini la violenza antislava è uno degli elementi costitutivi, anzi, la prima uscita in forze dello squadrismo urbano si ha nel luglio del 1920 a Trieste con l’incendio del narodni dom, sede delle organizzazioni slave. I connotati tipici della violenza squadrista sono le bastonature, le devastazioni, gli omicidi. Poi, dopo la costituzione del regime si passa alla violenza di stato, alla repressione poliziesca, alle condanne, anche capitali, del tribunale speciale.
Viceversa, nel secondo dopoguerra avete le stragi. Un’ anticipazione la trovate già nell’ autunno ’43, quando per circa un mese l’Istria è amministrata dai partigiani jugoslavi e qui le vittime sono dell’ordine delle 500. La seconda ondata, di maggiori dimensioni, l’avete nel maggio-giugno ’45, quando tutta la Venezia Giulia è amministrata dalle forze jugoslave. In questo caso, gli arrestati sono fra i 10 e i 12 mila: alcuni vengono uccisi subito e i corpi gettati nelle foibe, cioè le grotte del Carso; tutti gli altri vengono inviati nei campi di prigionia, dai quali prima o poi la maggioranza torna, ma alcune migliaia no.
Fra i due dopoguerra la differenza nel numero delle vittime è un fattore dieci: centinaia contro migliaia. Come mai?
Le spiegazioni di tipo ideologico o razziale non stanno in piedi, perché eludono la questione principale, che è la questione della guerra.
Entrambe le ondate di violenza sono figlie di una guerra, ma le due guerre mondiali sono diverse fra loro.
La Grande Guerra è la prima guerra totale, che insegna l’uso della violenza come strumento corrente per la soluzione dei conflitti politici. Questi conflitti scoppiano in buona parte dei paesi europei, Italia compresa. A quel tempo, sono in molti a teorizzare e praticare la violenza politica. I fascisti lo fanno in maniera più spregiudicata e più efficiente degli altri. Possiamo dire che quella dello squadrismo è la massima forma di violenza concepibile nel dopoguerra italiano: è sufficiente e non occorre pensare a qualcosa di peggio.
La Seconda Guerra Mondiale è diversa, perché fa saltare completamente la differenza tra civili e militari.

I civili diventano obiettivo di azioni belliche (bombardamenti), vengono utilizzati come manodopera schiava, sono oggetto di deportazioni e genocidi, diventano protagonisti della Resistenza e subiscono le conseguenze della repressione antipartigiana. insomma, possiamo dire che si è spostato l’orizzonte del pensabile, quello che pochi anni prima era inconcepibile, diventa la normalità quotidiana.

Nello specifico, la Venezia Giulia è la retrovia del vortice di violenza che si abbatte sulla Jugoslavia, dove accade di tutto: occupazioni, ribellioni, repressioni, guerra civile, tutti gli orrori che potete immaginare. Anche gli italiani sono occupatori, anche loro ne combinano di tutti i colori, basti pensare alle deportazioni di massa in veri campi della morte (come quello di Arbe), e fino dal ’42 la guerriglia partigiana e quindi anche la repressione cominciano ad investire anche la Venezia Giulia.
Il protagonista che emerge da quell’ inferno è il fronte di liberazione a guida comunista. E' abituato ad una lotta senza pietà, possiede una propria cultura della violenza, che è quella staliniana, e le sue esperienze di riferimento sono quelle della Guerra civile russa e della Guerra di Spagna.
Quando il fronte riesce a liberare anche temporaneamente un territorio, fa sempre le medesime cose: instaura i “poteri popolari”, che in seguito diventeranno le istituzioni del nuovo stato comunista, e procede all’epurazione dei “nemici del popolo”, cioè tutti quelli che non sono d’accordo e che ritiene pericolosi.
Questo è quello che fa in Istria nell’ autunno del 1943, dove i ”nemici del popolo” vengono identificati con la classe dirigente italiana, dai gerarchi fascisti ai farmacisti.
E questo è quello che fa, su scala molto più ampia, nella primavera del 1945 nei territori della Slovenia e della Croazia appena liberati, “nemici del popolo” sono quei gruppi che hanno collaborato con i tedeschi e che si oppongono al nuovo regime comunista.
Quelli sloveni si chiamano “Domobranzi” e ne vengono uccisi in pochi giorni fra i 10 e i 12 mila. Quelli croati si chiamano "Ustascia" e ne vengono uccisi dai 60 mila in su, sempre nei medesimi giorni.
La stessa ondata di sangue copre anche la Venezia Giulia, che dal fronte è considerata anch’essa jugoslavia. Qui i “nemici del popolo” abbiamo già visto chi sono: fascisti, uomini delle istituzioni, rappresentanti a diverso titolo del potere italiano, patrioti italiani anche antifascisti. Fra tutti questi vengono selezionati quelli più odiati per il passato o considerati più pericolosi per il futuro, e vengono messi fuori gioco con gli arresti, gli infoibamenti e le deportazioni.
Ovviamente, in un’ ondata repressiva di quelle dimensioni non tutto è controllabile e ci sono anche inserimenti di criminalità comune, ma l’ impostazione è rigidamente politica.
Si differenzia da tante altre rese dei conti che avvengono in Europa e anche in Italia subito dopo la liberazione, perché è organizzata dall’ alto, è eseguita da organi dello stato (principalmente la Polizia politica) e perché non guarda tanto al passato quanto al futuro: oltre e più che alla punizione di crimini precedenti, mira a realizzare le condizioni per l’ affermazione del progetto politico del fronte: in tutta la Jugoslavia, questo prevede la presa del potere e la costruzione di un regime comunista; nella Venezia Giulia anche l’annessione della regione alla Jugoslavia.

Ecco, con questi esempi ho cercato di mostrare come, a mio avviso, è possibile far interagire avvenimenti e contesto senza perdere né l’ uno né l’ altro, ma ci sono tanti altri esempi possibili.

Per concludere invece, vorrei richiamare la vostra attenzione su di un'altra dimensione, che ci permette di gettare un ponte fra passato e presente, e cioè quella degli esilii.
Io ho letto e raccolto molte testimonianze di esuli, sloveni e croati negli anni ’20 e ’30 e italiani nel secondo dopoguerra.
Le immagini e i racconti sono molto simili: il trauma del distacco e del salto nel buio; le traversate per mare con l’ angoscia della tempesta o della motovedetta; l’ arrivo che qualche volta suscita solidarietà altre rifiuto (come avvenne in un episodio nella stazione di questa città); i vagoni ferroviari trasformati in dormitorio alla stazione di Zagabria, con una sola presa d’acqua all’inizio binario; gli enormi spazi di un silos o di un magazzino divisi in cubicoli da tramezzi di compensato o solo da coperte stese sulle corde; l’uso dei profughi sloveni per slavizzare il Kossovo fra le due guerre; l’uso dei profughi italiani per saturare etnicamente il “corridoio sloveno” fra Monfalcone e Trieste; le umiliazioni nei centri di raccolta; il dolore dei familiari di chi non ce l’ ha fatta ed è scomparso non si sa dove.
Le stesse immagini le vedo alla televisione quasi ogni giorno, con altri lineamenti e altre lingue, ma sempre con i volti di uomini, e donne, e bambini, gettati allo sbaraglio.
E’ molto raro che la storia insegni qualcosa, però concludere le celebrazioni della giornata del ricordo con un impegno all’ accoglienza, potrebbe essere una buona idea".

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